Lettera da Sisak

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La riflessione che segue è frutto di una settimana trascorsa da un nostro parrocchiano nel campo profughi di Sisak, in Croazia, nell'ambito di un progetto della Caritas genovese.

Essa nasce dall'esigenza incontenibile di raccontare, una volta tornato a casa, ciò che ha conosciuto e vissuto, nel ricordo vivo e indelebile dei volti e dei cuori che là ha incontrato.

 

Ciao,

mi chiamo Emanuela, sono una bella bimba bionda, con un musetto simpatico e allegro nel quale brillano due occhioni blu che ti sorridono e ti avvolgono con tutta la spensieratezza dei miei tre anni.

Sono nata a Sisak, una cittadina in Croazia poco lontana da Zagabria. Qui vivo con la mia famiglia, la mia mamma, il mio papà, i miei quattro fratellini e sorelline e mio nonno. La nostra "casa" non è grande, ha i muri di legno e il tetto è fatto di una cosa strana a cui i grandi danno un nome difficile, eternit… Qui intorno ci sono tante altre baracche come la nostra, dove abitano altre famiglie di etnia serba e rom con tanti altri bimbi come me. Lo chiamano "campo profughi". Tra una baracca e l'altra, dove in certi giorni l'aria si fa pesante, quasi irrespirabile a causa dei fumi della vicina acciaieria, trascorriamo la maggior parte della giornata, ci ritroviamo per giocare, immaginiamo storie e avventure, ruzzoliamo tra la terra e l'erba, quando piove sguazziamo tra le pozzanghere. Ci arrangiamo con quello che troviamo, spesso rottami o rifiuti. Non abbiamo nulla, ma sappiamo divertirci con poco e, nonostante tutto, cerchiamo di cogliere tutte le occasioni per andare con entusiasmo incontro alla vita.

Prima che io nascessi qui c'è stata la guerra: molti di noi prima avevano una casa da qualche parte, ma tutto d'un tratto hanno dovuto abbandonarla, a qualcuno è stata confiscata, ad altri distrutta e si sono ritrovati qui.

Ora che la guerra è finita la situazione nel Paese sta gradualmente tornando alla normalità, al di là della sbarra che delimita il campo e ne fa un grande ghetto la vita scorre come se niente fosse.

Alcuni che prima vivevano nel campo hanno potuto fare ritorno alle loro case, nei loro paesi, ma nel frattempo altri sono arrivati e per molti questo è ormai il decimo anno di permanenza nel campo. Noi aspettiamo con ansia il giorno in cui ce ne potremo andare. La mia mamma dice che non sarà facile, lei è senza documenti e per averli ci vogliono tanti soldi, ma noi non ne abbiamo. Noi siamo serbi in territorio croato e per questo siamo emarginati, dimenticati, relegati in questo inferno. Qualcuno dice che entro Natale ce ne potremo andare, altri che ci vorranno ancora anni prima che il campo chiuda, ma la verità è che di noi non importa nulla a nessuno, per il Governo neanche esistiamo; è un po' come se  fossimo le vittime inconsapevoli di una sorta di enorme rimozione.

Il mio papà non riesce a trovare un lavoro a causa del suo stato di profugo e così, come i genitori dei miei amichetti, si arrangia come può.

Qualcuno qui è rassegnato, non è facile tirare avanti e guardare con fiducia al futuro senza una casa e senza sapere che ne sarà domani della tua famiglia. Così, soprattutto i più anziani, spesso si lasciano andare. Qualcuno forse ci morirà qui.

Chi ha più forza d'animo riesce a condurre una vita dignitosa pur tra tanta miseria, come testimonia l'umile decoro di alcune baracche; altri sono abbruttiti e sconfitti dalla vita, ma in tutti continua a bruciare una seppur tenue fiammella di umanità, che resiste tenace e talvolta divampa con impeto alimentata da un innato istinto di sopravvivenza.

Noi bimbi continuiamo a sognare un futuro migliore. Nei nostri cuori ci sono la stessa spontaneità e l'entusiasmo dei nostri coetanei più fortunati, che conducono una vita cosiddetta "normale": siamo svegli, curiosi, desiderosi di dare e ricevere affetto, di conoscere e di crescere; la vita ci sta insegnando ad arrangiarci, a tentare di sollevarci da questa miseria. Qualcuno è "arrabbiato", ma nessuno è "cattivo". Il rischio, però, è quello che, crescendo, veniamo fagocitati e annichiliti da questo limbo, da questa "non-vita", destinati ad essere messi per sempre ai margini: sarebbe un fallimento per l'umanità intera.

Saremo noi, in ogni caso, il futuro del nostro Paese, dipenderà anche da noi se la nostra nazione e l'Europa conosceranno ancora l'odio e la violenza o vivranno in pace e armonia. Noi siamo pronti a raccogliere la sfida, con la semplicità e la gioia della nostra età. Quello che chiediamo è soltanto che ci venga concessa un'opportunità di riscatto. Sono sicura che non ce la lasceremmo sfuggire.

Qui, dove la disperazione è pronta ad assalirti ad ogni passo, noi bambini siamo semi di speranza che cercano di farsi spazio tra i rovi, scintille capaci di innescare un futuro migliore, fiammelle che nonostante tutto continuano a bruciare, ma che rischiano di affievolirsi e morire.

Che bello sarebbe se un giorno ci potessimo svegliare da questo incubo e al posto di questo campo trovassimo un grande parco dove poter portare i miei figli a giocare. Allora, gli racconterò la nostra storia, la storia della fatica e del dolore dei loro nonni, la storia di come dalle ceneri dell'odio, grazie alla semplicità dell'amore dei più piccoli, può nascere la pace e risorgere la vita.

Emanuela Nikolic

Agosto 2005, Campo profughi di Sisak (Croazia).

  

Da alcuni anni la Caritas Diocesana di Genova ha stretto con gli abitanti del campo profughi di Sisak un rapporto di amicizia. Periodicamente gruppi di volontari genovesi vi si recano per portare aiuti concreti, e per testimoniare a queste persone la propria vicinanza con momenti di animazione per i bambini e di incontro con gli adulti.

Ciascuno di noi può fare qualcosa per queste persone. Il primo passo è quello di non dimenticarle, testimoniando al mondo che da qualche parte, neanche troppo lontano, qualcuno ci tende la mano.

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