Ascoltando le faglie interiori… A 40 anni dal Friuli.

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di Remo Cacitti*

Se un testimone dei tragici eventi che colpirono quarant’anni or sono il Friuli non ne può fare memoria, poiché ne è stato completamente coinvolto, egli può tuttavia ricordare quelle vicende: mentre la memoria, infatti, attiene principalmente alle facoltà della mente e su di essa si elabora il sapere storico, il ricordo implica – come evidenzia la matrice del vocabolo cor – l’attività del cuore, inteso come sede della vita, degli affetti, del pensiero. Intendo allora ripercorrere nel mio cuore l’arrivo dei volontari genovesi a Venzone, Pieve che era stata gemellata, nella felice attuazione di un piano generale di solidarietà promosso dalla CEI in tutto il Paese, con l’Arcidiocesi di Genova.

Attendati come noi, si prepararono ad affrontare il rigido inverno successivo al terremoto con uno spirito di dedizione e di servizio. Il nostro incontro dovette, credo, superare talune difficoltà iniziali, dal momento che venivano a contatto due esperienze e due modalità di vita ecclesiale significativamente diverse, la nostra legata alla tradizione dei piccoli paesi con tanti campanili (i 2500 abitanti di Venzone erano suddivisi in quattro parrocchie), quella genovese espressione di una grande città con articolazioni e modalità certo difformi dalle nostre. Del resto, dopo le tremende repliche sismiche del settembre, gran parte della popolazione aveva dovuto sfollare sulla costa adriatica, per cui una vera interazione tra i volontari e la gente venzonese poté cominciare a instaurarsi soltanto nella primavera successiva. Quei mesi invernali, tuttavia, non trascorsero invano: i volontari della Caritas ebbero modo di prendere coscienza della situazione in cui avrebbero operato, e qui si rivelò di particolare importanza la frequente presenza di don Piero Tubino, che si divideva tra i suoi impegni liguri e quella nuova frontiera friulana. Credo che egli abbia immediatamente intuito il nostro dolore, così che non ha mai indossato alcuna “divisa” da soccorritore (ce n’erano fin troppe in giro!) e non ha mai assunto compiti dirigistici per disciplinare una comunità spaventata, senza mai trattarla come una profuganza. Guardava, ascoltava piuttosto che parlare, domandava con attenzione ai problemi e con sensibilità per le persone, cercava di capire.

Al suo fianco assidua fu la presenza di don Pietro Lupo: egli garantì quella continuità che, se da un lato contribuì a rendere sempre più coeso il gruppo dei volontari, dall’altro lato rese costantemente visibile e operativo il rapporto tra quei giovani e la popolazione venzonese che progressivamente entrava nelle diverse baraccopoli in cui doveva attendere, con una pazienza talora messa duramente alla prova, la riedificazione della sua città. Non ricordo siano successi grandi eventi, ma il segno più profondo della presenza dei volontari dell’Auxilium-Caritas (come allora si chiamava) s’incise nel farsi reciprocamente prossimo, nella condivisione dei piccoli ma indispensabili lavori che consentissero un migliore svolgimento della vita quotidiana, nella partecipazione alle celebrazioni liturgiche, particolarmente significative per noi nelle ricorrenze della festività di Sant’Andrea, il 30 novembre, e nella festa della Dedicazione del Duomo, la prima domenica d’agosto.

Erano peraltro subito arrivate a Venzone, proprio nell’ambito dei gemellaggi, alcune suore dell’Ordine delle Cappuccine di Madre Rubatto, una piccola costellazione conventuale di origine e fortuna genovesi, che affiancarono per lungo tempo i volontari, contribuendo a rinsaldare una vicinanza di misericordia e di conforto con una popolazione che stava subendo non soltanto i danni materiali, ma ben più acutamente quelli dello smarrimento morale e del disorientamento spirituale. Il mio ricordo non si concentra però soltanto nel momento duro, per quanto formidabile, di quelle stagioni immediatamente successive al terremoto, ma si dispiega in lunghi periodi d’anni, tanto che mi è parso naturale, celebrando il quarantennale di quegli eventi, riannodare un filo che né la morte di don Tubino né quella ancor più recente di don Lupo hanno mai spezzato. Eravamo infatti diventati amici, coltivando un sentimento che dall’iniziale gratitudine era trascorso nel rispetto, nella condivisione, nell’affetto, nella responsabile intimità. Le faglie sismiche, quei percorsi ipogei che rendono terribilmente insicura ogni zolla sovrastante, non percorrono infatti soltanto montagne, paesi, città, ma incrinano anche le nostre superfici umane, per cui l’amicizia può diventare un sensibile strumento che rileva queste nostre fragilità. In questo, ci ha indubbiamente accomunato l’esperienza di un terremoto geologico che ci ha tuttavia consentito di porgere il nostro ascolto ai sommovimenti non meno tristi che fanno talora balzare i nostri cuori e velare le nostre anime. In ragione di quella reciprocità che costituisce il carattere forte di ogni amicizia, oso credere che anche da parte nostra sia stato offerto ai volontari genovesi un apporto per molti aspetti significativo: a Venzone, l’esperienza di una rigida formazione dottrinaria che caratterizzava da anni la conduzione disciplinare della chiesa genovese veniva infatti messa a confronto con il carattere conciliare che informava di sé la chiesa friulana, percorsa inoltre da formidabili istanze di ripensamento di tutte le componenti ecclesiali, a cominciare dal laicato. Penso che fummo di sostegno allo stesso don Tubino il quale, pur se nello spirito di una leale obbedienza al suo vescovo, non poteva non esprimere con lucida intelligenza il disagio che provava consumando nel tragitto fra Genova e il Friuli una distanza ben più significativa di quella chilometrica, come se transitasse dall’epoca anteriore a quella posteriore al Concilio Vaticano II.

Mi risolvo a ricordare una mia esperienza personale, quella dell’improvvisa visita a Venzone del card. Giuseppe Siri, allora appunto Arcivescovo di Genova: in qualità di Fabbriciere del Duomo, ero rimasto praticamente l’unico rappresentante della Pieve dal momento che il Pievano si era assentato e il carattere privato della visita non prevedeva una presenza dalla Curia udinese. Se da un lato mi colpì l’attenzione con cui il cardinale visitò le rovine del Duomo, dimostrandosi interessato ai progetti di riedificazione che già avevamo in mente, dall’altro lato rimasi attonito da quella che mi parve essere la freddezza con cui poi incontrò brevemente i volontari della sua Diocesi, freddezza che mi ricordo avvilì molto don Lupo e tutti i ragazzi riuniti per accogliere il loro Arcivescovo.

Fu proprio uscendo da casa mia, mentre percorreva il breve praticello per raggiungere il portone, che un suo amico medico notò nell’incedere di don Lupo qualcosa di strano, per cui lo persuase a sottoporsi ad alcune analisi. Fu l’inizio di quella lenta e lunga salita al Calvario che negli anni doveva impedire di fatto il movimento a don Pietro. La nostra amicizia si rafforzò, per cui lo seguimmo per anni, nonostante la distanza, soprattutto nel suo itinerario da Vallenzona a Megli: fu un itinerario gioioso, costellato da tanti momenti di festa, poiché l’umanità di don Lupo creava inizialmente simpatia ma poi anche stima e confidenza, e credo che tutti i suoi parrocchiani ne serbino ancora un ricordo commosso. Non rallentammo gli incontri e le occasioni di visite reciproche, e don Pietro ci stette accanto, lungo tutta la laboriosa opera di ricomposizione del Duomo, con la sua presenza e i suoi gesti ricolmi di affetto: alla Domenica delle Palme, a Venzone gli eleganti intrecci delle foglie di quegli alberi hanno sostituito i tradizionali rametti di ulivo, dono gentile di don Pietro che ancora testimonia la durata di un incontro di solidarietà che si è trasformata in un pegno di amicizia.

Quarant’anni rappresentano un segmento lungo e importante nella vita di una persona, per cui l’invito che mi avete rivolto, e al quale purtroppo non so corrispondere che con queste fragili parole, mi conferma però che abbiamo fatto una buona corsa, e che valeva davvero la pena farla insieme.

*storico, docente di Letteratura Cristiana antica e di Storia del Cristianesimo antico presso l’Università di Milano